La minaccia imprendibile

di Vittorio Emanuele Parsi

 

VIOLENZA, AREL la rivista 1/2015

 

 

La forma che la violenza tipicamente assume nelle relazioni internazionali è la guerra e le relazioni internazionali si svolgono all’ombra della guerra. È un adagio antico eppure attuale oggi come lo era ai tempi di Tucidide, per quanto il mondo contemporaneo sia enormemente più complesso e ricco di istituzioni di quanto potesse esserlo quello dell’autore della Guerra del Peloponneso, e nonostante la morfologia della guerra si sia “arricchita” di molte varietà nel corso di quasi 2.500 anni. Dell’epoca contemporanea, semmai, è la progressiva emarginazione della guerra interstatale come forma tipica del conflitto. Sempre più raramente le guerre che costellano il sistema internazionale possono essere fatte rientrare nella categoria che ha contraddistinto la “modernità vestfaliana”, ovvero quella caratterizzata dalla centralità dello Stato e delle sue relazioni con attori simili. Sul piano della realtà fattuale, se non ancora sul piano giuridico, il monopolio dello Stato nel diritto di fare la guerra – pendant del monopolio legittimo della violenza all’interno delle sue frontiere – è sempre meno effettivo. Mentre con frequenza sempre maggiore assistiamo all’internazionalizzazione di guerre civili, alla proliferazione di guerre asimmetriche e, soprattutto, alla copresenza di pace e guerra nello stesso torno di tempo e per una medesima società. Sono lontani i tempi delle “guerre a mobilitazione totale”, quelle cioè che sancivano il coinvolgimento dell’intera società nello stato di guerra, o che perlomeno così venivano rappresentate. Furono guerre a mobilitazione totale per eccellenza le due Guerre Mondiali, ma anche il conflitto franco-prussiano, per esempio. Fu rappresentata come tale, almeno nella sua fase centrale, grosso modo fino all’offensiva del Tet, la Guerra del Vietnam.

 

Dalla fine della Guerra Fredda, in maniera solo apparentemente paradossale, l’Occidente si è ritrovato coinvolto in operazioni militari più o meno estese e massicce (Iraq, Somalia, Balcani occidentali, Timor Est, Afghanistan, Libia, Africa subsahariana, antipirateria, Siria, ecc.) mentre la guerra tornava a divampare in Europa (dalla ex Iugoslavia all’Ucraina) e il terrorismo di ispirazione islamista colpiva con magnitudine e teatralità inedite le nostre società (New York, Londra, Madrid, Parigi, Copenaghen, ecc.). Tutti questi conflitti, compresi quelli scaturiti dagli attentati terroristici dell’11 Settembre, si sono svolti mentre le attività delle società occidentali proseguivano “come d’abitudine”. Eppure, a fronte di questa nuova “banalizzazione” del fatto bellico – che pure si accompagna con la sua crescente esecrazione retorica, con la sua continua condanna morale – la percezione occidentale di insicurezza in questi anni non ha fatto che aumentare. Siamo sempre più coinvolti in guerre guerreggiate, i nostri soldati combattono e muoiono in teatri lontani come, del resto, accadeva alla fine del XIX secolo, all’apogeo del colonialismo europeo, quando corpi di spedizione francesi, inglesi o italiani affrontavano i berberi, gli zulu o gli abissini. Da allora, però, è cambiata la percezione della nostra vulnerabilità, la possibilità di essere oggetto di violenza all’interno delle nostre società. Quasi dimentichiamo che, per tutta la durata della Guerra Fredda, proprio la vulnerabilità assoluta delle nostre società rispetto a un attacco nucleare massiccio da parte dell’Unione Sovietica rappresentava la condizione standard della nostra esistenza.

 

Come mai, allora, sembriamo oggi più preoccupati, se non talvolta impauriti, delle condizioni precarie della nostra sicurezza, quando neppure la peggiore delle ipotesi ragionevolmente formulabile prevede lo scenario di quell’Armageddon globale che ha rappresentato un incubo concreto per oltre quarant’anni? La risposta credo debba essere individuata nella, corretta, percezione di una complessiva perdita di tenuta della governance globale. Il sistema internazionale appare non tanto “fuori controllo”, quanto caratterizzato da uno iato temporale crescente tra il profilarsi di una minaccia e l’individuazione e attuazione di una risposta appropriata ed efficace. Ai tempi della Guerra Fredda alla minaccia esistenziale, “totale”, posta dalla possibilità di “distruzione reciproca assicurata” (Mutual Assurred Destruction, Mad, pazzo, nell’acronimo inglese) corrispondeva un dettagliato e sperimentato protocollo (fatto di ispezioni incrociate, trattati, vertici e linee di comunicazioni dedicate, il famoso “telefono rosso” visto in tanti film), che forniva la sensazione di un evento spaventoso eppure sotto controllo. In fondo, proprio la distruttività totale di una guerra termonucleare, unita all’impossibilità per l’aggressore di sopravvivere alla rappresaglia del difensore, rendeva altamente improbabile l’evento. Giocava, a favore della capacità di evitare la “terza guerra mondiale”, anche la convinzione che a guidare l’azione degli Stati e dei loro leader fosse la razionalità. Nonostante la forte tensione ideologica che definiva il mondo bipolare – disomogeneo rispetto ai princìpi di legittimazione dell’autorità politica e alle forme di organizzazione economica – essa conviveva, di fatto, con l’accettazione reciproca del diritto ad esistere dell’antagonista.

 

«Non corriamo il rischio di provocare l’estinzione della vita

per una guerra termonucleare globale,

ma siamo consapevoli di non poterci difendere

neppure dal “jiahdista della porta accanto”.»

 

Tutto ciò oggi è molto meno vero. Le più subdole delle minacce che ci troviamo ad affrontare sono portate da attori non statali, ai quali non riconosciamo nessuna legittimità, che agiscono con una razionalità che non riusciamo a comprendere e quindi verso la quale le nostre capacità di deterrenza si dimostrano inefficaci. Il nuovo scontro ideologico che contrappone noi, i governi e le società del mondo arabo e islamico al “califfato” di Al Bagdadi, è persino più radicale rispetto a quello che opponeva il “mondo libero” all’“impero del male”. Se la divisione tra comunismo e liberal-democrazia riguardava due concezioni della modernità occidentale unite da una comune razionalità, oggi lo scontro con il “jiahdismo 2.0” e ben più radicale. È lo scontro tra una razionalità rispetto allo scopo e una razionalità rispetto ai valori, per parafrasare Weber. È questo che ci fa sentire così “indifesi”, privi della tradizionale capacità di esercitare un’efficace forma di deterrenza.

 

In questo senso, è perfettamente legittima la nostra percezione di vivere in un mondo più insicuro e pericoloso di un quarto di secolo fa. Non corriamo il rischio di provocare l’estinzione della vita sul pianeta terra a seguito di una guerra termonucleare globale, ma siamo ben consapevoli di non riuscire a poterci difendere neppure in casa nostra dal “jiahdista della porta accanto”. A tal proposito, è difficile non constatare che la “parcellizzazione” della minaccia è da sempre associata con l’estrema difficoltà della sua neutralizzazione. Il “guerrilla warfare” ha per campo di battaglia non più solo ed esclusivamente giungle tropicali e infuocati deserti lontani migliaia di chilometri, ma i nostri mari, le nostre città, le nostre case.

 

Non si tratta di diffondere l’allarmismo. È la semplice constatazione di un dato di fatto, con il quale dobbiamo imparare a convivere fin tanto che non avremo trovato le armi − innanzitutto intellettuali e sociali − per sconfiggere questo nuovo tipo di nemico. Solo attraverso la costruzione di società davvero plurali, in cui quelle che sono nuove minoranze possano costruire la propria identità contribuendo a costruire la nostra, in cui le nostre classi dirigenti siano davvero multietniche e multiculturali non per ossequio al “politicamente corretto” ma per poter essere rappresentative delle nostre nuove società; solo allora potremo tornare a sentirci sicuri “come una volta”. A una condizione, però: riacquisire la consapevolezza che la “sicurezza assoluta” non esiste e non è mai esistita.

 

Nel campo della politica internazionale, oltre tutto, le minacce non si sostituiscono le une alle altre, ma semmai si cumulano, eventualmente lasciando che con estrema lentezza alcune finiscano sul fondo, pur sempre in grado di riemergere quando le condizioni lo consentiranno. Così, mentre la nostra attenzione è stata in questi ultimi cinque lustri prevalentemente assorbita dalle forme nuove, inedite davvero o risorgenti, che le minacce andavano assumendo, proprio nel corso di questi ultimi mesi abbiamo assistito al ritorno della vecchia logica delle sfere di influenza e delle tentazioni imperiali ai margini orientali dell’Europa. La crisi tra Occidente e Russia che ha per epicentro l’Ucraina orientale (per ora) ha contribuito a spiazzarci, ad acuire il nostro senso di insicurezza, la nostra frustrazione sull’inefficacia degli sperimentati sistemi di management della tensione anche tra gli Stati, persino tra le grandi potenze. Ed è singolare che mentre proprio la politica si dimostra in estrema difficoltà nel perseguire il suo scopo elementare di offrire garanzia rispetto alla sicurezza, di rassicurare rispetto all’incertezza del futuro, continuamente si ricerchino “soluzioni politiche” affinché la parola non sia lasciata solo alle armi. Quella terza guerra mondiale che temevamo potesse annichilire l’umanità ai tempi della Guerra Fredda sembra scampata. È significativo, però, che essa sia stata evocata proprio nella sua forma “parcellizzata”, e quindi più insidiosa, da Papa Francesco, tra i primi a farlo e di sicuro dotato di una voce forte e difficile da non udire. “Si vis pacem, para bellum” è l’antico adagio latino, valido oggi come ai tempi della grandezza di Roma. Forse, però, dovremmo affiancare a questo monito uno nuovo: “Si vis pacem, para pacem” e procedere attrezzati di entrambe queste consapevolezze in un mondo che non è più quello vecchio, ma non è ancora quello nuovo.