
Un politico vero. Ricordando Mino Martinazzoli
di Pierluigi Castagnetti
Sono passati nove anni dalla scomparsa di Mino Martinazzoli, politico, avvocato e senatore che fu presidente dell’AREL mentre Andreatta era ministro del Tesoro. Sotto la sua guida, nel 1981, nacque «Arel Informazioni» il prototipo di quella che sarebbe diventata «AREL la rivista», che nel 2011 volle dedicare un numero alla sua memoria.
Oggi, per ricordarlo, vi proponiamo un estratto dall’articolo di apertura di quel numero (AREL la rivista 3/2011), scritto da Pierluigi Castagnetti, e dedicato a Martinazzoli in cui venivano ripubblicati gli articoli che aveva scritto per l’AREL.
Ha fatto bene l’AREL a ristampare in questo numero il volumetto Controcorrente DC, uscito la prima volta nel settembre 1979. Una pubblicazione apparentemente senza pretese che contiene alcuni interventi e scritti di Mino Martinazzoli, membro e presidente dell’associazione per alcuni anni. Martinazzoli era legato all’AREL non solo per la forte amicizia con Nino Andreatta, ma perché gli piaceva l’ambiente, gli piaceva trovare persone con cui discutere in modo non banale, gli piaceva il tentativo di pensare in termini concreti all’incontro fra cattolicesimo e liberalismo che rendeva così strane e sospettate queste due figure agli occhi della sinistra DC in cui pure militavano con convinzione.
Liberali e di sinistra, laici e credenti, fedeli alla chiesa e nondimeno alla propria coscienza come Newman, Andreatta e Martinazzoli sembravano fatti per capirsi e completarsi. A Nino piaceva quel linguaggio vagamente esoterico con cui Martinazzoli accarezzava e cristallizzava pensieri solidi; a Mino piaceva l’intelligenza geniale e colorita con cui Andreatta ti metteva in mano il bandolo delle più difficili matasse macroeconomiche e con cui cercava di trasformare in politica anche le intuizioni apparentemente più stravaganti. Entrambi erano, se pur in modo diverso, figure borderline tra l’intellettuale e il politico, con la pretesa di essere pienamente intellettuali e pienamente politici. E lo erano. Per questo erano ammirati e temuti dal resto della compagnia dei politici. Ma in quegli anni non si sentivano a disagio per la loro eccentricità, perché di quella eccentricità sentiva il bisogno di alimentarsi la politica. Quando i tempi diventavano più opachi e complicati, venivano affidate proprio a loro le relazioni introduttive ai seminari e ai convegni in cui si cercava di ritrovare e dare un senso alle cose che si facevano. Erano Andreatta, Martinazzoli, Elia, Scoppola, Ardigò e altri ancora gli uomini a cui ci si affidava, lo stesso Aldo Moro ci si affidava, per leggere i tempi e i problemi. Mentre altri uomini politici frequentavano salotti dislocati nei pressi di un potere senza volto e senza responsabilità, l’AREL era il luogo austero e gratificante per l’intelligenza e lo spirito di chi lo frequentava, non di rado aperto anche a giovani come il sottoscritto in larga parte appagati di “assistere” a uno spettacolo intellettuale impagabile. Ma non c’era solo esibizione e speculazione accademica, in quegli anni in AREL si faceva vero laboratorio politico.
La riproduzione di questo volumetto non è, dunque, solo un omaggio a una figura politica da poco scomparsa che ci ha lasciato un’eredità di pensiero e di esperienza per molti versi originale. È anche l’omaggio alla memoria di un farsi e un discutere il senso della politica quando, appunto, la politica era solita interrogarsi. Ed è un omaggio per la generazione dei politici di oggi, che potranno scoprire nelle riflessioni di Martinazzoli di oltre trent’anni fa in considerevole misura un’attualità insospettata. È, infatti, proprio delle grandi personalità leggere i problemi del presente con occhi transtemporali per cui, anche il semplice commento a un risultato elettorale, contiene tracce di pensiero intenzionalmente presbite e, dunque, utilizzabile anche nel futuro.
Ma come è possibile parlare di attualità di Martinazzoli, cioè di un personaggio talmente “impolitico” da essere spesso considerato inattuale anche nel suo tempo?
“Impolitico” era un’aggettivazione che toccava la sua suscettibilità, e spesso lui reagiva anche con durezza ritenendosi al contrario homo politicus a tutto tondo, al massimo – per parafrasare un’immagine di Scoppola – un politico a modo suo. Tranne le volte in cui per civetteria era lui a definirsi impolitico, ma lo faceva contornandone il significato o costruendo un paragone con figure storiche che lui amava, come Manzoni ad esempio, del quale dirà:
«Impolitico non perché ignorasse Machiavelli, ma perché non gli riusciva di comprendere un potere disgiunto dalla ragione morale. Impolitico perché la convinzione cristiana e l’attitudine liberale lo opponeva alla pretesa ideologica. Impolitico perché era certo che la politica ripiega nella demagogia e nella finzione, se le si pongono domande eccessive. Sapeva, al contrario, che tocca a ciascuno affinare e condividere il proprio talento in modo che sia appagato il bisogno di giustizia e risulti persuasiva la regola comune, perché sia più umana la società e più veritiera la politica».
No, Martinazzoli, era personaggio politico in senso proprio. Politico è stato il suo impegno amministrativo, prima nel comune di Orzinuovi («la politica per noi era discutere come illuminare meglio la piazza del paese»), e nell’amministrazione provinciale di Brescia e da ultimo in quella comunale, essendo stato sindaco dal 1994 al 1998. Politico è stato il suo modo di gestire i ministeri della Giustizia, della Difesa e delle Regioni. Politico è stato il suo modo di essere parlamentare dal 1972 al 1994 e consigliere regionale della Lombardia dal 2000 al 2005. Politico è stato il suo modo di antevedere il logoramento progressivo del suo partito, la Democrazia Cristiana. Politico è stato il suo tentativo di affidarsi “solo” all’intelligenza e alla generosità personale e non al potere delle tessere, nella gestione del partito, quando gli è toccata.
«Non ho scelto la politica per vocazione e non considero la politica una professione. Ho vissuto la politica come un servizio – richiesto e insieme dovuto – verso la comunità».
Questo in effetti fu lo spirito con cui accettò il disperato mandato di salvare la DC, nell’ottobre del 1992, da un destino che sembrava segnato. Ma il tempo non c’era più. Accettò ugualmente la scommessa, un po’ per un senso di debito verso le generazioni che avevano fatto la DC e, con la DC, avevano concorso a fare l’Italia, e un po’ per farsi carico – in una sorta di espiazione generazionale – di errori gravi che non erano stati i suoi, e un po’ infine per un debito di onore e di responsabilità verso il quadro europeo.
La vicinanza e l’amicizia con il cancelliere Kohl lo costringeva a riflettere infatti sulle conseguenze che la fine della DC avrebbe avuto anche sul piano europeo. L’europeismo che aveva portato il cancelliere tedesco e gli altri capi di Stato a definire la scommessa della moneta unica a Maastricht solo due anni prima, poggiava più di quanto non si dicesse anche allora, sul sostegno della DC italiana negli equilibri interni al PPE. Anche per questo Martinazzoli sentiva sulle spalle il peso di una responsabilità enorme da sopportare inevitabilmente e in gran parte in solitudine. (…)
Probabilmente se Martinazzoli non si fosse imposto l’interruzione dell’attività politica in prima linea dopo il 1994, avrebbe potuto giocare ancora un ruolo importante, almeno in tutti gli anni Novanta, vivendo in prima persona l’esperienza dell’Ulivo insieme a Prodi e ad Andreatta e forse avrebbe potuto determinare altri sviluppi nella vicenda politica italiana. Forse, ma con i forse è difficile ricostruire la storia. Di certo si può dire che anche dal suo “eremo” di Brescia ha continuato a esercitare un’influenza e un magistero di pensiero che giorno dopo giorno riscopriamo. La sua partenza definitiva chiude, anche plasticamente, la stagione di un certo cattolicesimo democratico, quello che aveva l’ambizione, e l’intelligenza proporzionata all’ambizione, di “fare storia”, cioè di incidere sul corso degli avvenimenti, era la cosiddetta terza generazione della DC e del cattolicesimo montiniano che ha prolungato la scia di un’influenza culturale, politica ed ecclesiale, cominciata all’inizio del secolo scorso da Sturzo, ripresa dopo la Seconda guerra mondiale da De Gasperi e Dossetti, e poi proseguita da Moro, Fanfani e Zaccagnini e infine completata, appunto, da Andreatta, Ardigò, Scoppola, Elia, Bachelet, Granelli, Ruffilli e Martinazzoli stesso. Dopo di loro è iniziata la fase attuale caratterizzata da una ricerca non facile e non sempre lucida di un nuovo percorso. La lettura del testo, che grazie all’AREL viene oggi ristampato, può sicuramente servire a illuminare almeno un po’ questo nuovo percorso.