Politica, partiti, democrazia: affresco in chiaroscuro

Un estratto dell’intervista con Miguel Gotor di Roberto Bertoni

Nel 1985 nasceva la rivista AREL. Trentacinque anni dopo, con Miguel Gotor, già senatore del Partito Democratico e di Articolo Uno, nonché storico di vaglia e autore di un recente libro dedicato alla storia italiana nel Novecento, abbiamo analizzato i cambiamenti occorsi in questo lasso di tempo in un paese che è completamente diverso da allora, ma i cui problemi strutturali sono molto simili. Una politica fragile, in cui prevale un certo “caudillismo”, sia pure di segno diverso a seconda dei momenti, i ripetuti tentativi di modificare la Costituzione per provare a risolvere i problemi economici e istituzionali di un’Italia senza più partiti e corpi intermedi all’altezza della sfida, la prospettiva di un futuro difficile e il rischio che un’intera generazione, quella dei trentenni nati dopo l’abbattimento del Muro di Berlino, abbia un domani all’insegna della precarietà e dell’impossibilità di costruirsi una famiglia: questa è la realtà contemporanea.

 

Vi proponiamo qui un estratto dall’intervista fatta a Gotor da Roberto Bertoni e pubblicata su 1985-2020 AREL la rivista.

 

Il 1985, con le sue molteplici vicende, è considerato da alcuni osservatori come l’anno in cui comincia a venire meno la cosiddetta “Repubblica dei partiti”. Tuttavia, questo passaggio dal “tutto della politica” degli anni Settanta al “nulla della politica” della stagione successiva ha inizio sette anni prima, con il rapimento e poi l’assassinio di Aldo Moro. Qual è la sua opinione in merito?

 

All’indomani della morte di Moro alcuni osservatori ritennero che fosse finita la Prima Repubblica, quella che Pietro Scoppola avrebbe in seguito definito la “Repubblica dei partiti”. In realtà, forti del senno di poi, quell’omicidio ne prolungò l’agonia per circa un decennio e più, fino alla “grande slavina” internazionale del 1989 e, poi, la crisi di Tangentopoli. L’operazione Moro può essere paragonata a un intervento chirurgico che privò l’Italia di un punto di riferimento e di bilanciamento sul fronte interno e internazionale. Nell’immediato, però, la sua scomparsa concorse a stabilizzare il quadro della solidarietà nazionale e il Governo Andreotti, con il sostegno dei comunisti, sopravvisse ancora stentatamente per un anno. Certo, Berlinguer perse il suo interlocutore privilegiato, una sorta di bussola di orientamento necessaria alla sua strategia politica, e quella formula si esaurì gradualmente con la scomparsa del suo principale artefice.

 

Il 1985 è anche un anno di sangue, con la strage di Fiumicino da parte di un commando palestinese, l’omicidio di Ezio Tarantelli perpetrato dalle Brigate Rosse, i delitti di mafia (Beppe Montana e Ninni Cassarà), l’attentato fallito a Carlo Palermo che costò la vita a Barbara Rizzo e ai suoi due bambini. Diciamo che «la storia stava finendo», ma gli echi del passato erano ancora forti. Quanto hanno influito queste vicende, sia pure molto diverse, sul nostro presente?

 

Sono fenomeni che hanno origini diverse. La morte dell’economista Tarantelli costituì il drammatico colpo di coda di una vicenda politica e sociale che era in fase di esaurimento come la lotta armata; la strage di Fiumicino rappresentò il ritorno di una matrice internazionale dello stragismo che aveva già colpito il nostro territorio a causa delle difficili relazioni tra gli equilibri della Guerra Fredda, lo scenario mediorientale e il ruolo di “cerniera” dell’Italia; gli attentati della mafia rappresentano, purtroppo, una costante della storia italiana, ogni qualvolta Cosa nostra smette di dedicarsi agli affari perché avverte l’esigenza di ridefinire i suoi rapporti con lo Stato. Questa violenza sorda e continua, di differente origine, ha certamente contribuito ad allargare il fossato tra la società civile e le istituzioni, facendo sì che si diffondessero e si radicalizzassero sentimenti di sfiducia, impotenza e disillusione nell’azione collettiva che condussero al disimpegno che avrebbe inevitabilmente condizionato anche la stagione civile e culturale successiva. Questo ha fornito uno straordinario e rinnovato propellente a quella che mi piace definire la cosiddetta “Repubblica dell’antipolitica” in cui siamo ancora immersi.

[…]

 

Cambiano i costumi, cambia il quadro internazionale. Il 1985 significa «Dallas», l’egemonia di Reagan, rieletto a furor di popolo l’anno precedente, ma anche l’emergere di Gorbačëv. È la fine della storia quattro anni prima dell’abbattimento del Muro?

 

È la storia che accelera e non fa sconti, lasciando vinti e vincitori sul campo di battaglia. L’Afghanistan per la Russia finì per trasformarsi in un Vietnam. La capacità del capitalismo di riformare se stesso nella direzione di una finanziarizzazione dell’economia, agevolata dalla rivoluzione tecnologica digitale, si rivelò inaspettata per efficacia e intensità. Ciò avvenne anche grazie alla sponda energica e credibile che Reagan trovò in Europa con l’ascesa al potere di Margaret Thatcher, per la quale «la società non esiste. Ci sono solo individui, uomini e donne, e ci sono famiglie»…

[…]

 

Vari studi hanno parlato dei trentenni di oggi come di una possibile “generazione perduta”, stretta nella morsa fra precariato e impossibilità di costituire un nucleo familiare e mettere al mondo dei figli. Cosa ne pensa?

 

Il problema esiste e le responsabilità del passato, o meglio le sue irresponsabilità, sono evidenti. Lle “pensioni baby”, introdotte nel 1973, in concreto hanno significato che quasi seicentomila italiani – distribuiti soprattutto nel Settentrione, dove si sono concentrati il 62,5 per certo di questo tipo di pensionati – hanno iniziato a gravare sulle casse dello Stato intorno ai quarant’anni, con una prospettiva di vita, nel frattempo, allungatasi, che avrebbe potuto consentire loro di ricevere, nel corso dell’esistenza, persino il triplo di quanto effettivamente versato all’erario. Secondo alcuni calcoli costoro hanno trascorso in media il 48 per cento della loro vita in pensione, con una media di 40,7 anni di assegni percepiti. A rendere ancora più distorsivi gli effetti di un simile provvedimento, vi è la constatazione che molti baby pensionati, trovandosi ancora nel pieno della loro forza produttiva, si sono messi a svolgere un secondo lavoro integrativo dell’assegno previdenziale, naturalmente autonomo e in nero, ossia senza pagare le tasse con cui avrebbero dovuto finanziare, almeno in parte, le loro pensioni e i servizi sociali che intanto hanno continuato a ricevere (l’assistenza sanitaria, l’istruzione pubblica per i propri figli e familiari ecc.). Il costo della legge sulle “pensioni baby”, finanziato a debito per i quarant’anni successivi (1973-2013), è stato stimato in oltre 150 miliardi di euro per le casse dello Stato e nel 2018 è stato valutato che continui a gravare sull’erario per 7,5 miliardi di euro annui.

 

Sono dati che inducono a riflettere. In che termini condizionano le giovani generazioni e da cosa si potrebbe ripartire per scongiurare la catastrofe?

 

Direi che questa vicenda sia una straordinaria metafora della condizione italiana e del distorto rapporto tra le generazioni. Conosco alcuni casi di miei coetanei che a quarant’anni erano ancora precari a scuola o all’università mentre la loro madre insegnante, alla loro stessa età, era già in pensione e contribuiva al mantenimento del figlio con la rendita e con dazioni ereditarie anticipate. Questo è incivile e configura una selezione di censo inaccettabile. C’è una bella poesia di Valerio Magrelli, uno dei suoi dialoghi agli inferi, che si concentra proprio su questo problema, ossia sulla difficoltà di immaginare il futuro di un paese i cui figli, privati di un futuro autonomo, sono costretti a un’umiliante dipendenza dalle loro famiglie: «Giovani senza lavoro | con strani portafogli | in cui infilare denaro | che non guadagnato | […] la vostra giovinezza, | la Bella Addormentata | langue nel sortilegio | di una vita a metà […] Falsa è la loro vita, | finta, una pantomima | fatta da controfigure, | interrotta da prima». Ecco, l’Italia di oggi mi appare come una “Bella addormentata”, in attesa del bacio di un nuovo Principe che la risvegli dal suo stagnante torpore. Non basta sperare che ciò avvenga, ma bisogna impegnarsi perché si realizzi. Cominciare dalla scuola, utilizzando parte dei finanziamenti straordinari arrivati a causa della crisi sanitaria del Covid-19, sarebbe un ottimo punto di partenza per il presente e d’investimento per il nostro futuro. Giovanni Giolitti, nel 1914, sostenne che sarebbero bastate due generazioni «bene allevate e bene educate» per cambiare i destini degli italiani e, oltre un secolo dopo, la sfida è ancora quella.

 

Per leggere l’intervista completa su 1985-2020 AREL la rivista.

 

*La foto utilizzata è di Niccolò Caranti ed è stata modificata tagliandola, aggiungendo il logo dell’Agenzia e diminuendo la risoluzione